LA FAMIGLIA
Intervista a Fausto Niero, fratello di Franco.
Con lui c’è Valentina Stefani, sua compagna e mamma di Rocco
L’intervista è di Sara Salin.
Qual è il primo ricordo che hai di tuo fratello?
«Che giocavamo. Che eravamo sempre insieme, come due gemelli siamesi. Stavamo sempre attaccati.
Fisicamente. Mi ricordo che stavamo tutto il giorno su in mansarda a giocare sul cuneo di pelle e poi la sera scendevamo per andare in negozio da mia mamma
e stavamo su un materassone nero. Dopo qualche anno abbiamo iniziato a guardare la televisione, una piccola Brionvega grigia a cubo. Ho il ricordo di essere stato sempre attaccato, attaccato, attaccato. Di fare tutte le cose insieme. Poi siamo cresciuti,
continuando in un rapporto nel quale le parole non servivano. Come succede per i gemelli. Ci capivamo comunque, sempre. Anche dopo, da adulti. È una cosa che è rimasta inalterata negli anni».
C’era complicità fra voi due?
«Tantissima. Anche da grande, quando rientravo a casa, era un perno per me. Lui c’era, era lì. Io facevo tutte le esperienze che lui non faceva, che non poteva fare. E appena arrivavo a casa mi guardava e bastava uno sguardo per “mettermi in ordine”».
C’è stata una fase della vita in cui il vostro rapporto è cambiato?
«Sono cambiato io, passando dall’avere un rapporto così simbiotico con lui all’avere un problema con gli altri».
Con quali altri?
«Con il mondo. Perché quando cresci, quando diventi un adolescente, questa situazione diventa destabilizzante».
Perché?
«Di fatto ero diverso dagli altri. Era una cosa che facevo fatica a raccontare».
Franco l’aveva capito?
«Ovviamente».
Sentivi una sorta di responsabilità aggiunta all’essere fratello di una persona che viveva in te e con te le esperienze della vita?
«Da piccolo ero il suo braccio. Io dovevo fare cose, lui non le poteva fare. Dovevo fare tutto. Me lo prendevo, me lo giravo. Anche nel gioco, ero io quello che agiva anche per lui».
Franco è sempre stato una persona felice per la vita degli altri e per quello che lui non poteva avere…
«E questo mi creava un senso di colpa. Questa sua unilateralità, una sorta di amore senza una ricompensa che mi ha messo in una condizione di difficoltà. È un senso di colpa, o un rimorso, che ho in modo perenne».
Per esserti fatto una vita tua?
«Per non aver dedicato tutto quello che potevo a lui. Finché eravamo piccoli è stato tutto perfetto e tutti i ricordi che ho con Franco sono bellissimi. Dopo dovevo iniziare a fare la mia vita e di fatto la situazione diventava un po’ un intralcio per me. Questa
famiglia allargata, con così tanta gente sempre attorno, per casa. E nel periodo dell’adolescenza fino ai vent’anni è stata dura per me. Provavo delle emozioni che non erano corrette, che erano contrastanti fra loro. È stato difficile, avrei voluto che succedesse qualcosa perché vedevo la mia vita ristretta, compressa. Quando gli anni passano ti resta un rimorso allucinante, che provo ancora oggi».
Il vostro rapporto è cambiato?
«Per me Franco è sempre stato una figura che posso paragonare a un vigile, a qualcosa di fermo, che restava lì. Una persona che non aveva mai l’aspettativa di un tornaconto personale dal suo rapporto con gli altri. Gli bastava sapere cosa avevi fatto, per
arricchirsi. E questo mi faceva soffrire ancora di più. Era talmente forte…».
Un carattere molto diverso dal tuo.
«Era un calcolatore, una persona precisa. Programmava sempre tutto e prevedeva le conseguenze. Se però qualcosa non andava esattamente come aveva pensato, andava in crisi. Sarebbe stato così anche senza la disabilità».
È successo anche quando siete andati negli Stati Uniti per avere una speranza di guarigione? Ti ricordi di quel viaggio?
«Avrò avuto dodici anni. Questo viaggio bellissimo… Mi ricordo perfettamente di quando siamo arrivati a Filadelfia per la visita. Hanno risposto che non c’era niente da fare. E lui, crisi».
Quando hai deciso di costruire la tua famiglia con Valentina e Rocco, questa famiglia molto poco convenzionale che hai avuto ti ha influenzato nelle scelte?
«Di fatto ho avuto due mamme, sempre tanta gente per casa. In realtà non saprei come descrivere la mia famiglia di origine. Come catalogarla. Forse non sapevo veramente cosa fosse una famiglia come la intendono gli altri. Sia io che Valentina veniamo da famiglie non ordinarie e potremmo dire che ci siamo inventati un altro modo di fare famiglia,
senza un modello da seguire, senza programmarlo».
Quando Franco è morto, il rapporto con i tuoi genitori è cambiato?
«Sì. All’inizio probabilmente per le loro esigenze, considerato che stavano invecchiando. Poi, onestamente, non pensavo che ce l’avrebbero fatta. E sono rimasto molto sorpreso. Sono riusciti a ritrovare i vecchi amici, a crearsi nuovi interessi oltre che
a fare le cose che facevano prima di Franco. Ma il primo pensiero che ho fatto è che non sarebbero mai potuti sopravvivere senza il motivo per cui avevano vissuto fino a quel momento».
Non credi che probabilmente sarebbe stato il contrario? Che, se fosse successo qualcosa a loro, tuo fratello non ce l’avrebbe fatta?
«Era il suo terrore, da sempre».
Come è stato per Franco l’arrivo di Rocco, di un nipotino?
A rispondere è Valentina.
«Gli voleva un bene dell’anima. Una cosa pazzesca è che, nonostante la nascita di un nipotino distogliesse naturalmente attenzione nei suoi confronti da parte della famiglia, Franco era felicissimo. Era un ragazzo altruista. È stato uno zio a tutti gli effetti».
Valentina, com’era il tuo rapporto con Franco?
«Ho passato molto tempo a Robegano da sola e mi confrontavo molto con Franco.
Era bello parlare con lui, anche perché lo facevo molto liberamente. Era l’unica persona della famiglia con cui mi sono sentita proprio libera fino dal primo momento di dire quello che volevo. Magari anche sbagliando. Allora lui si metteva a ridere e mi diceva “Ma dai, porta pazienza. Ti capisco”. Mi sentivo davvero molto libera, non ho mai provato compassione nei suoi confronti. O commiserazione. Quei sentimenti un po’ di pena, ecco. Perché non l’ho mai percepito debole. Paradossalmente lo sentivo molto più forte di me. Io avevo ventotto anni, lui trentatré».
Quando Fausto ti ha detto che aveva Franco, com’è andata?
«Non me l’ha detto. Mi ha portata a casa sua, era una domenica, abbiamo fatto i gavettoni».
E ti sei ritrovata questo ragazzo.
«Non mi ha fatto né caldo né freddo. La roba pazzesca è questa, che mentre di fronte a una persona disabile solitamente non sai come rapportarti, soprattutto a ventotto anni e con la mia testa di allora, per me Franco in quel primo incontro non era una persona
disabile. Zero. Non ho il ricordo di aver provato una sensazione particolare. Il mio unico problema era riuscire a capire quello che diceva e le prime volte ero infastidita da questo mio impedimento, perché mi dispiaceva tanto. Facevo davvero fatica, avevo paura si spazientisse».
Fausto, come hai vissuto quella mattina del 2 novembre? Te lo aspettavi, ti eri preparato al fatto che potesse succedere?
«No. Ero a Quinto di Treviso, stavo pescando ai laghetti con Rocco, mi ha chiamato mio papà e mi ha detto “Abbiamo svegliato Franco, ma non si sveglia”. Mi è caduto il mondo. Ho preso Rocco e siamo andati subito a Robegano».
Valentina: «Mi ha telefonato e mi ha detto “Mio fratello è morto. Raggiungimi in taxi, siamo qui ai laghetti e poi andiamo insieme”. Chiamo il taxi, salgo e c’era la radio accesa.
Trasmetteva “True colors”. Non me lo scorderò mai. Proprio i “colori veri”, era la canzone perfetta. Adesso ogni volta che canto quella canzone penso a lui».
Fausto: «È stato un fulmine a ciel sereno».
A cosa hai pensato in quel momento?
«A lui. A me».
Valentina: «Io, che non sono cresciuta con lui, ho pensato che sia stata una morte super bella. Al momento giusto. Luisa e Roberto che non erano ancora troppo anziani.
Credo che Franco si sarebbe sentito in colpa a farsi aiutare da due genitori che faticavano a farlo. Ma non voglio che quello che dico venga interpretato male, perché mi è dispiaciuto tantissimo. Ero molto orgogliosa di Franco, raccontavo sempre a tutti di
lui. Quello con lui è stato un rapporto che mi è servito molto, era una bella persona e mi piaceva stare con lui».
Valentina, c’è qualcosa che ti manca di Franco?
«No. Quello che mi ha dato, io ce l’ho. Io ho Franco dentro di me».
Fausto: «Non è che Franco mi manchi, è che ho sempre delle questioni in sospeso».
2 novembre 2013
Caro Franco,
tu ci hai amati per primo.
Hai gioito delle nostre conquiste e sofferto per le nostre cadute.
Grazie a te, alla zia Luisa e allo zio Roberto abbiamo capito a fondo il significato
di famiglia dove si è accolti, accuditi e ascoltati.
Abbiamo sperimentato il significato del servizio e della dedizione, e la gioia
semplice dello stare insieme attorno a un tavolo fra chiacchiere e risate.
Saremmo persone più povere, ne siamo certi, se non avessimo avuto la
fortuna di stare con te, conoscere il tuo coraggio e la tua immensa gioia di vivere.
Faremo tesoro dei nostri ricordi e li racconteremo alle nostre famiglie
per affermare che la vita è bella e va vissuta in pieno nonostante le difficoltà.
Ti abbiamo amato
i tuoi cugini e i tuoi zii
Giovanni Niero – cugino di Franco
«Il mio primo ricordo di Franco arriva da una foto in piscina: ci siamo io, lui, mia sorella Federica e forse mia cugina Silvia. Ce ne sono altre di foto, ma forse ero troppo piccolo per tornare con la memoria a quando sono state scattate. L’ultimo ricordo,
invece, è la telefonata dello zio Roberto. La corsa a casa loro con mia figlia Alice in braccio, la zia Luisa che non voleva lasciare la mano di Franco, il suo viso rilassato, come se non avesse sofferto in quel passaggio che è la morte.
Franco per me è stato un “fratello”. Ho vissuto con lui, a casa sua, l’infanzia, la gioventù, l’età adulta e molti momenti con la famiglia e gli amici.
Abbiamo condiviso assieme esperienze uniche: abbiamo giocato e litigato, ci siamo raccontati segreti e intimità, mi è stato maestro in tante cose, e io per lui uno “strumento” per provarne altre. Dalle varie “avventure” con i Lego, dove lui voleva sempre avere il ruolo di poliziotto per catturare i ladri oppure dirigere il traffico, ai videogiochi dove mi guidava attraverso lo “sparatutto” di turno. Dalle confidenze delle mie prime avventure amorose all’annunciargli l’arrivo di mia figlia.
Mai un giudizio, da lui. Solo consigli. Mai un rimprovero, ma sempre insegnamenti.
Mai un no, tanti sì…
Ricordo bene anche le crisi, i pianti, i momenti di sconforto. Ma Franco si è sempre rialzato, ha sempre ritrovato il sorriso. Ancora oggi il ricordo più vivo in me è Franco che sorride e si diverte con noi.
Grazie, Franco. Mi hai donato tantissimo. Mi hai insegnato il “non sentirsi un diverso” e il “mettersi sempre in gioco”. I valori che oggi porto con me nella vita di tutti i giorni e che cerco di trasmettere agli altri».
Nicola Berto – cugino di Franco
«Potrei dire molto su quello che Franco mi ha trasmesso. Ma mi limito a dire quello che più ha segnato il mio rapporto con lui e con il mondo.
Ci penso spesso. Ripercorro la nostra vita. E mi convinco ogni volta di più che io e Franco avevamo lo stesso carattere, lo stesso modo di pensare, lo stesso modo di vedere.
Ci penso e mi specchio.
Poche parole e sintonia immediata. Mai, dico mai, ci siamo trovati in disaccordo.
Certo, la speranza è che non lo facesse solamente per farmi contento. Ma non credo.
Quello che mi ha fatto capire fin da quando era bambino è che, se il corpo non risponde a quello che vorresti, puoi farcela lo stesso. Ossia che la disabilità del corpo non coincide sempre con la disabilità della mente. Se il tuo corpo va da una parte, tu
puoi sempre andare dall’altra parte. Il corpo non ti limita. Non ti ferma.
È per merito suo se vedo le cose sotto un aspetto diverso. La disabilità è una sfortuna: può capitare a tutti, anche momentaneamente se ti rompi una gamba. Di conseguenza l’aiutare chi non ce la fa diventa qualche cosa di spontaneo. Di naturale.
Spesso gli dicevo: “Franco, mi incazzo quando vedo il bagno per i disabili. Perché in mezzo a tutti noi vedo poche persone normali e quindi mi sa che qui mancano un po’ di cessi! Perché non si possono fare tutti i cessi per disabili e rampe dappertutto? O
dobbiamo continuamente ricordare a un disabile che è disabile?”. La sua risposta, naturalmente, era una “agitata di corpo” con l’aggiunta del suo consueto “Eeehhh”.
Franco in due parole? Un leader. Diretto, schietto, leale. Un grande, che ha saputo aprire gli occhi a tre generazioni.
Il suo “covo”, un punto di incontri e appuntamenti, dove qualsiasi cosa detta e fatta era secretata. Lui, come un prete, confessava tutti. Sapeva tutto di tutti. Chi non ha condiviso un segreto con Franco? E lui, una tomba.
Fine osservatore, conoscitore, ascoltatore, attento, puntuale.
Un maestro d’orchestra.
Mio cugino, sebbene momentaneamente assente, è sempre presente».
Sara Salin – cugina di Franco
«In uno dei molti incontri per mettere insieme il materiale di questo piccolo libro-memoria mio zio Roberto improvvisamente, mentre stappava l’immancabile bottiglia di prosecco, se n’è uscito con una domanda:
Ma voi, i cugini, come vedevate Franco?
La verità è che questa è una domanda che non mi ero mai posta prima. Quando Franco è nato avevo otto anni e alla gioia di un altro nuovo cuginetto si univa la fibrillazione che anche questa volta, proprio come era successo per suo fratello Fausto
due anni prima, il fatto che fosse prematuro diventava la certezza che tutte le scarpine di lana preparate da mia mamma sarebbero automaticamente passate in dote alle mie bambole, perché erano troppo grandi per un bambino così piccolo.
Era bellissimo. Un principino dentro l’incubatrice, quel primo giorno. Quando lo penso lo vedo con gli occhi della bambina di allora, ma anche con le orecchie tese a percepire i discorsi dei grandi. Le preoccupazioni. Dei miei genitori, dei nonni, degli zii.
Piange, piange sempre. Non tiene la testa sollevata. C’è qualcosa. Poi la diagnosi, quell’andirivieni a Conegliano, le urla durante la ginnastica che si sentivano fino a casa della nonna Alba. Ti toglievano il cuore, anche se eri ancora piccola. È un ricordo indelebile la preghiera silenziosa della mia prima comunione, il maggio dell’anno successivo alla sua nascita: Gesù, fai guarire il mio cuginetto.
La nostra è stata una famiglia unita. Passavamo insieme le domeniche e i giorni di festa. Noi bambini eravamo felici: vivevamo quasi tutta l’estate a Robegano dai nonni.
Dopo la nascita di Franco la “casa” si è automaticamente ingrandita: metà giornata dai nonni e l’altra metà dalla zia Luisa. Franco è stato il nostro catalizzatore. La domenica si partiva da Mestre per “andare da Franco”. Attorno a lui è ruotato il resto della nostra
infanzia, la nostra adolescenza e, più tardi, quando a ventun anni sono andata a vivere a Robegano, c’è stato anche il fulcro della mia compagnia di amici. Che poi, nonostante la vita mi abbia portata altrove e il lavoro e le frequentazioni siano in un’altra città, sono gli stessi amici dai quali continuo a tornare con l’affetto più grande ogni volta che ce n’è l’occasione. Credo che siamo stati uniti da un’anima davvero unica.
Cosa ho risposto a mio zio? Gli ho detto la verità: Franco era nostro cugino. Faceva parte della banda che si radunava in mansarda, che chiamava Andrea “il sovietico” ed Elisabetta “la maestra”. Forse, mentre crescevamo, ci siamo sentiti impotenti: tutte le
volte in cui il suo unico desiderio, ripetuto all’infinito, era camminare, correre, andare in bicicletta. Avevamo solo una risposta: farlo al posto suo.
Non è stato facile lasciarlo andare. Non è stato facile organizzare il suo funerale. Ma non è stato facile neppure trattenere le risate quando dalla chiesa al cimitero la bara portata a spalla dai ragazzi a un certo punto ha iniziato a ondeggiare. Me lo sono immaginato, quello che avrebbe detto se avesse potuto. Niente di riferibile.
Non è stato facile e ci manca. Mi manca. Mi mancano il suo sguardo indagatore davanti al quale era impossibile nascondere un problema o un segreto. Mi mancano le accese divergenze di opinione sul caso di Eluana Englaro. Mi manca la sua capacità di
essere un confidente che neanche un frate confessore riesce a mantenere al sicuro così tanti peccati. Mi mancano i suoi messaggi in privato su Facebook per avere consigli sui primi audiolibri. Mi mancano le sue risate quando La Nuova Venezia mi ha chiesto di fare un servizio sulle barriere architettoniche a Robegano e, restando in posa per il fotografo con la carrozzina sollevata a metà del gradone dell’ufficio postale, mi è venuto il colpo della strega e sono rimasta una settimana con la schiena bloccata. Mi manca
partire la sera per andare tutti insieme a mangiare all’autogrill sopraelevato, che chissà poi cosa ci trovava di così emozionante. Mi manca la sua complicità quando reggeva la copertura che gli facessi da baby-sitter e invece mi vedevo con il morosetto (Franco
naturalmente era presente). Mi manca rivoluzionare gli orari di una sala operatoria perché lui non debba stare troppi giorni senza la mamma ed essere obbligata ad assistere a un impianto di pacemaker, uscendo ogni cinque minuti a riferirgli come sta andando
per farlo stare tranquillo. Mi manca sostenerlo nei suoi momenti difficili, quando pensava al domani, quando era infastidito dall’essere una persona così ansiosa: ecco, mi manca dirgli ancora una volta “Franco, hai un carattere di merda. Ma tranquillo, siamo in tanti”. E vederlo passare in un battibaleno dalla lacrima al sorriso.
Certo, la sua presenza nella mia vita e in quella di tutti i miei cugini è stata un dono e oggi è un’assenza. Di sicuro non è stata vissuta mai come una diversità. C’erano solo degli ostacoli, ma il modo di superarli lo abbiamo sempre trovato. Perché gli zii ci hanno insegnato così. Ci hanno coinvolto nei progetti, nelle giornate di sensibilizzazione, nel volontariato. E la nostra vita ha avuto lo sguardo di Franco, sempre.
Ho pensato molto a Franco in questo periodo. Uso ChatGPT, ascolto tanti podcast, leggo cose sull’intelligenza artificiale, sugli ultimi modelli di assistenti vocali, romanzi che hanno per protagonisti assistenti androidi. Mi chiedo quanto piacerebbe tutto questo a mio cugino, quanto ne sarebbe affascinato. Senza dubbio alla prima occasione, con la sua esse sibilante, mi direbbe: “’Scolta, go un’idea…”».