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4 SETTEMBRE 1973

Tetraparesi spastica distonica.
Quando Maria Luisa Berto e Roberto Niero sentono per la prima volta pronunciare queste tre parole non capiscono.
Sono una giovane coppia. Lei fa la parrucchiera nel negozio aperto sotto casa assieme alla sorella Lucia. Lui è un falegname.

Si sono sposati il 5 luglio 1970 nella chiesa del loro paese, Robegano, in provincia di Venezia. Sono innamorati da sempre e il loro è stato un lungo e felice fidanzamento.

Nello stesso anno è nato il primo figlio, Fausto.
Il 4 settembre 1972 Luisa e Roberto diventano genitori per la seconda volta.
All’ospedale civile di Mirano nasce Franco. Proprio come era successo con il primogenito, Luisa partorisce con anticipo rispetto al termine della gravidanza.
È un maschietto sano, ma è molto piccolo. Viene messo nell’incubatrice neonatale.

«Lo hanno tolto troppo presto. Ci hanno detto di averlo fatto perché era molto vivace.
Si girava, si toglieva i tubicini. Ma quella scelta è stata all’origine del danno», racconta Roberto.
Un danno che non viene né ammesso dai medici né percepito subito dai genitori, che tornano a casa con il proprio bellissimo bambino senza avere la minima idea di quanto davvero fosse successo e che si sarebbe iniziato a manifestare di lì a pochi mesi.

Prematuro e tolto con troppa fretta dall’incubatrice, cinque giorni dopo la nascita Franco ha un episodio di ittero. I medici dicono a Luisa di chiamare con urgenza il marito perché il bambino è grave. Vengono allertati: probabilmente sarebbe servita una trasfusione di sangue. Roberto rimane in ospedale tutta la notte, ma non gli viene chiesto nulla. La mattina gli fanno sapere che può tornare a casa: il bambino sta bene. Luisa e Franco vengono dimessi.

«Era bello, tanto. Era piccolo. Solo che piangeva continuamente, ventiquattro ore su ventiquattro. Ma per i medici dell’ospedale di Mirano era guarito, era tutto a posto.
Andavamo a fare dei controlli, guardavano l’emocromo. Niente, non c’era niente che non andasse. Ma Franco piangeva», racconta Luisa. Che una mattina, stanca di non riuscire mai a chiudere occhio, telefona al reparto di pediatria dell’ospedale di Padova. È
una mamma, sente che c’è qualcosa che non va.
Chi è dall’altro capo del telefono la ascolta e decide di fissarle un appuntamento con un neurochirurgo pediatrico. «Lo specialista gli misura la testa, lo guarda e lo riguarda. E mi chiede perché mi preoccupo. Gli rispondo che se mangia, piange. Non dorme mai.
Appena tocca il letto, urla. L’unico modo per rilassarlo è tenerlo fra le braccia», ricorda Luisa. Alla fine della visita lo specialista consiglia alla coppia di portare Franco da un pediatra, sempre a Padova. Altro appuntamento. Altra visita. Il pediatra – dopo aver
compreso che il problema del bambino riguarda il movimento – suggerisce il nome di un neurologo.
“Questo bambino è molto grave”. La frase del neurologo è diretta e lascia Luisa e Roberto spiazzati. Ma come grave? Grave perché piange? Non capiscono, non mettono a fuoco il problema. Lo specialista – che raccomanda ai genitori di non disperarsi e di non cercare soluzioni all’estero – suggerisce di rivolgersi a La Nostra Famiglia di Conegliano.
Aggiungendo: “È il massimo che ci sia a livello europeo”.

«Per caso – racconta Luisa – avevo mantenuto un rapporto di amicizia con la mia maestra delle elementari, che portava un bambino a fare terapia proprio a La Nostra Famiglia. Lei aveva già capito il problema, ma io no. Io non avevo mai visto prima un bambino così. Mi chiede se voglio che ci prenoti una visita dalla dottoressa Pellegri, aggiungendo che è brava. Non ne venivamo fuori e acconsentii subito»

È la primavera del 1973 quando Franco entra per la prima volta a La Nostra Famiglia di Conegliano. E lì («Grazie a Dio», commentano Luisa e Roberto) capiscono.
Capiscono che il bambino piange perché è sempre rigido, non si rilassa mai. Capiscono che i medici che lo hanno visitato nei mesi precedenti avrebbero dovuto accorgersene: la dottoressa Alda Pellegri tende due dita verso il piccolo, che istintivamente si aggancia e si arrampica. Ma non riesce a mollare la presa. Capiscono che quella trasfusione annunciata e mai effettuata avrebbe potuto salvarlo. E che il danno è per sempre.
«Non ci hanno mai detto che sarebbe guarito, ma che la ginnastica a cui doveva essere sottoposto sarebbe servita solo a non farlo peggiorare. Possiamo solo dire grazie a La Nostra Famiglia».
È andata così.

Quando siete tornati a casa cosa vi siete detti?
(Ridono entrambi)
«Forse non ci siamo detti niente», risponde Roberto.
«Credo proprio niente», conferma Luisa.
«Probabilmente ciascuno dei due ha pensato di darsi da fare», aggiunge Roberto.

«Quando sono entrata per la prima volta a La Nostra Famiglia, tutti i bambini gridavano mentre gli facevano la ginnastica. Ma dove siamo capitati? Ho pensato che fosse una setta, che non fosse possibile che li curassero così. Ho avuto un’impressione
terribile», ricorda Luisa.
Mamma e papà non si danno per vinti. Vengono a conoscenza di un convegno europeo in programma a Bressanone: partono. Lo fanno senza dire nulla all’istituto di Conegliano, temendo che pensassero che non avevano fiducia. Ma quando arrivano, al
tavolo dei relatori ci sono proprio loro, gli stessi specialisti che hanno già in cura Franco.

Il bambino viene visitato da un professore tedesco, assistito dalla terapista de La Nostra Famiglia. Il professore guarda Luisa e Roberto: “State tranquilli e seguite i loro consigli. Avete già i migliori”.

Non è l’unico “altro parere” che la coppia negli anni cercherà. Arrivano fino a Filadelfia, negli Stati Uniti, qualche anno dopo. Si sentono dire che gli dispiace, ma non ci sono risposte diverse. Si sentono dire che il danno provocato quei cinque giorni dopo
la nascita è stato grande. Un danno irreparabile su un problema che definiscono “semplice e risolvibile come un’appendicite”.

Era la seconda volta che qualcuno vi diceva che si è trattato di un danno.
Non avete mai pensato di fare causa all’ospedale di Mirano?
«Adesso ci sarebbero mille avvocati pronti a fare causa, ma all’epoca non sapevamo.
Non ci è mai venuto in mente. Mai», risponde Roberto.

La vita familiare di Luisa, Roberto, Fausto e Franco viene rivoluzionata. Il bambino va portato due volte la settimana a Conegliano per le terapie. Tre volte al giorno la ginnastica gli deve essere fatta anche a casa.
E qui entrano in gioco le famiglie di origine di Luisa e Roberto. Un supporto fondamentale fino dal primo momento dopo la diagnosi.
«Dove avrei potuto andare con un bambino così? A lavorare?», si chiede oggi Luisa.
Che fa presente come il destino degli altri bambini “come Franco” fosse di essere lasciati in istituto. A quel tempo i genitori non avevano altra scelta.
Loro no. Luisa e Roberto scelgono di andare controcorrente, scelgono di occuparsi direttamente di loro figlio. Fra mille sacrifici e peripezie. Una scelta spontanea, sulla quale non è servito confrontarsi né fra loro due né con altre persone. Lo fanno e basta.
Senza mai il minimo dubbio.
«Era mio figlio», dice Luisa. «Non mi sarebbe mai passata per la testa l’idea di affidarlo ad altri. Qui stava bene. Qui aveva delle ragazze (indimenticabile e indimenticata, fra tutte, Stefanella Munarin) che si sono prese cura di lui e che venivano a chiamarmi se aveva bisogno di qualcosa. È cresciuto in questo modo».
Già. Ma con un impegno che oggi entrambi riconoscono essere stato totalizzante. Basti pensare ai primi anni di scuola, frequentati a La Nostra Famiglia di Treviso, con Roberto che ogni mattina alle otto lo aveva già portato in classe e con Luisa e la sorella Lucia che ogni pomeriggio andavano a Treviso per riportarlo a casa. Poi la scuola frequentata in paese, in anni in cui il “sostegno” significava che ogni volta che Franco doveva fare la pipì bisognava far arrivare la mamma di corsa. Infine le superiori ai Padri Giuseppini di Mirano, un’avventura durata poco. Non certo perché Franco non avesse capacità e volontà di proseguire gli studi, ma per quel disagio organizzativo che si è trasformato subito in un ostacolo insuperabile.
«Pensa a tutti gli sforzi fisici che ha fatto per arrivare dove è arrivato, bambino…»,
afferma Luisa. Le fa eco Roberto: «No, Luisa. Lui ha fatto veramente fatica. Per tutto. Era sempre una fatica grande, tanto grande».

«Senza Franco non andavamo in alcun posto. Cercavamo di fare la vita di prima. Ma lui era sempre con noi. Sempre», raccontano Luisa e Roberto. Una vita cuore a cuore, nella quale a poco a poco hanno iniziato a entrare altre persone. Le persone che
aiutavano. I familiari. Gli amici di Franco. «Diciamo che Franco è stato fortunato, perché ha avuto tante persone», aggiunge Luisa.

Un bambino, un ragazzo e poi un uomo con un carattere molto deciso. Un carattere forte, determinato. Senza il quale probabilmente non sarebbe riuscito in molte delle cose che ha fatto. Nelle quali è riuscito anche a essere una sorta di pioniere. Franco però aveva anche una altrettanto forte sensibilità, che si è accentuata negli anni. «Era un groviglio di emozioni», dice la mamma. E l’amicizia, la compagnia, quella casa sempre piena di gente e quella vita sempre densa di impegni erano il suo sfogo. L’espressione della sua vivacità.

Se c’è una questione sulla quale entrambi i genitori si sono costantemente interrogati nel corso della loro vita è l’avere già un altro figlio. Si sono posti fino dal primo giorno il problema di come potesse vivere questa condizione, allo stesso tempo particolare e
straordinaria. Sono stati avvertiti già al primo colloquio con la dottoressa Alda Pellegri, a La Nostra Famiglia. La specialista ha fatto loro presente come da quel momento in avanti tutti, indistintamente, avrebbero guardato Franco. Tutti avrebbero parlato con
Franco. “Ma dei fratelli – disse allora la dottoressa – nessuno si ricorda”.
Luisa e Roberto comprendono molto bene che non si tratta di un problema di poco conto. «Quando Fausto è andato in prima elementare, la maestra mi ha mandata a chiamare e mi ha chiesto se il bambino avesse qualche problema in famiglia. Evitava di
interrogarlo – racconta Luisa – perché si emozionava, arrossiva, non riusciva a rispondere. Le ho spiegato la situazione e lei ha compreso»
Roberto non ha dubbi: «Fausto non viveva certo un rapporto familiare normale. Per fortuna c’era una rete familiare importante. Da piccolo mia sorella Maria lo portava sempre in campeggio con lei e con gli scout. Ma ci ho pensato molto in questi anni,
anche quando ho sentito in televisione la riflessione di una giornalista che ha un fratello disabile. Diceva che lei era sì la sorella, ma che tutta l’attenzione andava solo al fratello».

Torniamo con la memoria alla mattina del 2 novembre 2013.
Vi eravate mai immaginati che potesse accadere?
(Rispondono contemporaneamente)
«No».
Fino al giorno prima il problema era l’opposto:
Franco era terrorizzato all’idea di poter rimanere senza di voi…
Roberto: «Ha messo a posto tutto».
Come sarebbe vissuto senza di voi?
Luisa: «Non possiamo neanche pensarci».
Roberto: «Chi lo sa. Qualche volta vado in casa famiglia e mi immagino Franco lì dentro, ma non so cosa immaginarmi. Ecco, forse avrebbe potuto essere una persona che in una casa famiglia realizzava qualche cosa, non certo un ospite che guarda il soffitto tutto il giorno».

Luisa e Roberto non hanno mai progettato nulla di tutto ciò che è stata la loro vita dopo l’arrivo di Franco. Tutto è arrivato in modo naturale. Giorno dopo giorno. Per loro due come coppia dicono che Franco è stato una fortuna. Un’esperienza felice.
«Non mi vedrei in un mondo diverso da quello che ho vissuto negli anni in cui Franco c’è stato», confessa Luisa.
Tutto quello che sono in questi anni senza di lui lo considerano semplicemente una continuazione di quello che è stato con lui.
Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Franco. Il dolore non passa, ma la vita va avanti. E ci sono tante cose che restano, la riempiono, le danno un senso.
«È bello che ci siano rimasti tanti impegni, che ci siano dei bisogni che noi riusciamo a capire meglio di altri», dice Luisa.
Guardano entrambi indietro. Pensano a quello che è stato. A quanto questa storia ha cambiato le loro vite. A quello che sarà. A ciò che Franco ha dato loro.
«Sono convinta che si possa sempre trovare una soluzione positiva in qualsiasi situazione della vita. Basta incontrare le persone giuste, quelle che sono in grado di aiutarti. Per noi le persone giuste sono state La Nostra Famiglia. Quella è stata la base.
Poi molto l’ha fatto il nostro carattere, un po’ propenso a vivere alla giornata», afferma Luisa.
«Di storie ne ho conosciute tante. Non so se sia per il fatto che questa è la mia, la nostra storia. Ma sono convinto che come Franco non abbia vissuto nessuno. Però tante volte mi ritrovo a pensare, adesso che siamo arrivati al tramonto, che se tutto quello che
è successo capitasse in questo momento non saremmo in grado di affrontare nulla di quanto abbiamo affrontato».

Di una cosa sono entrambi certi e consapevoli.
«È stata una bella storia».

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LA FELICITA' NON DIPENDE DALLA FORTUNA

MA DALLA CAPACITA' DI LEGGERE LA VITA
Ci sono persone che hanno la capacità di rimanere per sempre. Anche quando muoiono. Certo, tutti coloro che ci lasciano continuano a essere nei nostri pensieri, nei nostri ricordi, nelle nostre lacrime, nei sogni. Ma c’è anche chi riesce a fare di più.
Restare. Qui e ora. In un’altra dimensione, in un corpo che non si può toccare, in una voce che persiste nelle nostre menti e nelle nostre anime.
La loro presenza continua a farsi percepire forte e chiara.
Franco è una di queste persone speciali.
A ciascuno di noi ha lasciato qualcosa di prezioso e quel qualcosa continua a vivere.
A ciascuno di noi spetta il compito di custodire e testimoniare il suo insegnamento.

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