LA SCUOLA
«La mia memoria è più o meno quella di un criceto, ma ci sono alcune cose dell’infanzia che ricordo: una di queste è il sorriso di Franco. La gioia che esprimeva nel vedere noi compagni di scuola andargli incontro e salutarlo era sempre incontenibile!».
Sono le parole di Marzia Baratto, compagna di scuola di Franco a Robegano. Prima della scuola del paese, Franco ha frequentato per alcuni anni le elementari nella sede di Treviso de La Nostra Famiglia. L’inserimento in classe ha costituito senza dubbio una soluzione felice: era vicino a casa, era con le bambine e i bambini della sua comunità. Le stesse e gli stessi con cui poter stringere amicizie da coltivare anche nel resto della giornata.
«Durante le sue passeggiate con la maestra Anna, quando passava davanti a casa mia, se ero in giardino a giocare – racconta Marzia – si fermavano spesso a salutarmi e a fare una chiacchierata. Ricordo anche i pomeriggi passati a casa sua a fare i compiti o le ricerche che ci venivano assegnate: c’era uno spirito di gruppo molto forte».
La maestra Anna rievocata da Marzia è Anna Berto. Cugina di Luisa, è stata per antonomasia “La Maestra” di Robegano per molte generazioni. Per Franco è stata un punto di riferimento fondamentale nell’educazione scolastica: lo ha affiancato con amorevole sapienza e affettuosa capacità nell’arco intero delle sue giornate. Per Anna al mattino c’era la classe, al pomeriggio c’era Franco. E, una volta andata in pensione, c’era Franco. Sempre. Alternando lezioni a passeggiate quotidiane in lungo e in largo per Robegano. Così minuta ma così energica dietro la carrozzina.
«Proprio qualche giorno fa riflettevo sulla notizia del bambino disabile alla cui festa di compleanno non si è presentato alcun compagno. Con Franco – continua Marzia – succedeva proprio il contrario. Le sue feste erano affollatissime, tutti noi non vedevamo l’ora di partecipare e Franco era sempre presente alle nostre. Credo che molto del merito sia da riconoscere a Roberto e Luisa, che hanno cresciuto Franco senza porre l’accento sulla sua disabilità ma sulle sue potenzialità».
Federica Niero – cugina e compagna di scuola di Franco
«Cos’ha significato essere la cugina di Franco. È da un po’ che ci penso. Sono nata che Franco era già con noi e sono cresciuta con la sua disabilità. In tutta la nostra gioventù siamo stati molto vicini. Abbiamo vissuto così tanto quotidiano, che Franco per me non era un disabile: era semplicemente mio cugino.
Non che non capissi le sue difficoltà, ma questo non limitava le nostre interazioni. E per me lui era come gli altri cuginetti. Le feste in famiglia, le gite domenicali, le ore a La Nostra Famiglia, l’estate: le passavamo sempre assieme.
Ciò che ricordo di più dei lunghi pomeriggi estivi sono le ore passate a costruire intere città con i Lego. Appuntamento nel giardino degli zii con altri cugini, mio fratello Giovanni, oltre a qualche vicino e vicina di casa coetanei. Scatola e istruzioni alla mano, si procedeva al montaggio. Lo zio Roberto ci aveva messo a disposizione il portico esterno e un tavolo enorme. Lì passavamo le ore. Franco era la mente, noi il braccio. Lui giocava attraverso le nostre mani e noi imparavamo che la diversità può diventare normalità.
Certo, se Franco doveva andare in bagno era necessario chiamare la zia Luisa, ma per il resto ci si poteva arrangiare. Bastava aiutarlo a bere con la mitica cannuccia* e fargli accavallare la gamba quando era il momento. Ovviamente non sono mancati i momenti di panico, carrozzina in bilico e qualche caduta. Passata la paura, Franco se la rideva come un matto.
Non ho mai visto Franco perdere la fiducia in noi, compagni di gioco: forse se la faceva sotto dalla paura… ma noi non lo abbiamo mai percepito. Era un bambino socievole e aperto, desideroso di stare in mezzo agli altri e di partecipare ai nostri giochi e alle chiacchiere.
E poi c’era l’attività con gli scout. Lupetti assieme. Attività. Vacanze di Branco. Insomma, la gran parte del tempo di svago passata assieme.
Negli anni delle scuole elementari non frequentavamo la stessa classe, ma nel passaggio alla scuola secondaria ci ritrovammo nella stessa classe. Quindi entrambi alle prese con un nuovo ambiente scolastico, con nuovi compagni e nuove insegnanti. Grazie alla presenza dell’assistente sociale, Franco ha frequentato la scuola come tutti noi. Ma spesso le insegnanti faticavano a capirlo. L’articolazione delle parole era per lui più complicata che per una persona “normale”, ci metteva un sacco di impegno a farsi capire e a volte chi non lo conosceva bene faticava un po’. Sfinito, mi guardava e mi diceva: “Fede (anzi, più spesso Chicca), no ‘e capisse, glielo dici tu?!”.
A volte si doveva uscire dalla classe per qualche urgenza di Franco e, in attesa dell’arrivo della zia Luisa, se l’assistente sociale non c’era l’incaricata ero io. Un’incombenza che spesso mi ha salvata da qualche interrogazione e, mentre eravamo fuori in corridoio ad aspettare, Franco se la rideva. Felice di avermi salvata.
Il suo sguardo, spesso di traverso per la posizione della testa che voleva sempre starsene girata, non lo dimenticherò mai. E neppure il suo sorriso complice. Non so se fosse solo merito degli zii, ma Franco nonostante le sfide quotidiane sapeva divertirsi e sapeva gioire delle piccole cose. E poi era autoironico.
Era sempre felice per gli altri. Quando si trovava in gruppo – in classe oppure a una festa – era contento che le persone di divertissero. Era felice di stare in mezzo a loro.
Durante i tre anni di scuola media la routine prevedeva che tutti i giovedì pranzassimo a casa sua. Pranzo e compiti. Franco non poteva scrivere e si serviva di un programma messo a punto per lui, con un cursore che poteva scorrere su una specie di tastiera a video. I comandi di spostamento erano vocali… e il pomeriggio passava a suon di giù, su, aaa, eee… Penso che per lui fosse parecchio faticoso e spesso si incazzava perché il microfono e il software non capivano i suoi comandi. E scappavano pure qualche parolaccia e qualche insulto diretti al pc.
Franco era un ragazzo che cercava affetto e nei miei confronti era protettivo e fedele. Ma questo era un atteggiamento reciproco.
Molte volte stando con lui si doveva cercare di spiegare la sua disabilità agli occhi dei curiosi. Chi non lo conosceva non era in grado di capire che la sua era solo una limitazione fisica. Una malattia che lo faceva dipendere dagli altri per via della sedia a rotelle, ma che non implicava limitazioni cognitive. Succedeva che alcune persone non gli parlassero direttamente o che gli parlassero come ci si rivolge a un bambino. Alcuni erano spaventati dai suoi movimenti repentini e non controllati. E lui ne soffriva. Era chiaro che gli dava molto fastidio.
Quello che non capivo io era perché non ci si potesse nemmeno sforzare di comprendere. Volevano vedere solo quello che in lui non funzionava e non quello che era in grado di esprimere.
Crescere insieme è stato speciale. Probabilmente ha reso tutti noi persone migliori».
*Nota degli autori: la cannuccia rievocata da Federica Niero nel suo racconto è stata utilizzata come immagine di copertina di questa pubblicazione.