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IL GERMOGLIO

Nell’estate del 1991 il Clan degli scout di Robegano ha vissuto un campo di servizio alla cooperativa sociale agricola Il Melograno di Udine, che aiuta ancora oggi l’inserimento di persone svantaggiate nel mondo del lavoro.

A quel campo parteciparono anche Roberto, che a quel tempo era capo scout, con Franco, che allora era un adolescente. Nei mesi che seguirono Roberto ripensò a quell’esperienza. Assieme a Gianni Favaro – a quel tempo capo gruppo Agesci – propose ad altri amici, genitori di ragazzi disabili, capi scout e componenti di altre associazioni di volontariato di creare a Robegano Il Germoglio, come risposta alternativa all’assistenza, in grado di assicurare percorsi di realizzazione, di relazioni, di crescita e di autonomia.

La Cooperativa Sociale Il Germoglio è stata costituita il 25 marzo 1992 grazie a sedici soci fondatori (oltre a Roberto, Luisa e Franco, c’erano Andrea Barbato, Adriana Campigotto, Maurizio Codato, Attilio Favaro, Gianni Favaro, Luisa Felaco, Magda Natali, Attilio Niero, Luciano Niero, Luciano Rizzato, Alfio Spagnolo, Olindo Stevanato e Roberto Vian) con lo scopo di offrire opportunità di lavoro a persone svantaggiate così come definite dall’art. 4 della Legge n. 382 del 1991 e generalmente escluse dai normali canali occupazionali.

Obiettivo dei soci fondatori è stato fin dall’inizio quello di costituire un’organizzazione in grado di fondere insieme i principi economici e imprenditoriali con quelli sociali e della mutualità: una realtà che economicamente si sostiene, all’interno della quale, attraverso il lavoro, le persone possano sentirsi protagoniste e realizzate al di là di quanto possono dare in termini produttivi ed economici. L’impegno quotidiano è quello di creare un ambiente nel quale partecipazione, impegno, condivisione, solidarietà non rimangano solo enunciati ma diventino prassi quotidiana.

Oggi la Cooperativa Sociale offre opportunità di lavoro continuativo a più di novanta persone, tra le quali più del 30 per cento considerate persone svantaggiate.

2 novembre 2013

Franco se ne è andato all’improvviso, senza dirci nulla, senza dire nulla a nessuno.
Franco forse aveva già detto tutto.

Aveva detto che la vita è bella, che merita comunque di essere vissuta, che ciascuno deve avere un progetto, un sogno e che niente e nessuno deve impedire che questo possa essere raggiunto.

Aveva detto che niente è facile, che niente dura per sempre, che bisogna cercare il meglio, il nuovo, con l’entusiasmo di chi ogni giorno vuole scoprire qualcosa.

Aveva detto che le persone sono importanti, in qualsiasi condizione si trovino a vivere, qualunque cosa pensino, ciascuna meritevole di considerazione e di occasioni per esprimersi.
Franco è stato il seme del Germoglio.

Coltivare questo seme, cercare di farlo crescere e maturare è diventata un’esperienza coinvolgente ed entusiasmante.
Attorno a questo progetto decine di persone, motivate dalla forza che viene da chi non si rassegna, da chi è capace di convivere con i propri limiti e sa sognare.

Lavorare al Germoglio è diventata una scelta: quella di condividere un sogno, uno spirito e uno stile. Il sogno che un lavoro diventi un progetto di vita, una possibilità di crescita personale, di relazioni forti e coinvolgenti. Un ambiente di integrazione, collaborazione, dialogo. Lo spirito di chi non si pone limiti, di chi vede oltre, di chi si impegna per migliorarsi. Lo stile di chi è consapevole della forza del gruppo, di chi lavora in un angolo, da solo, in silenzio, ma sente e vede tutto e interviene per costruire rendendosi disponibile per quello che gli viene chiesto.
…che Franco sia il futuro del Germoglio”

Gianni Favaro – Presidente della Cooperativa Sociale Il Germoglio

«A Il Germoglio c’è un segno d’arte che accoglie chi entra in cooperativa. È la riproduzione di un quadro commissionato a Mario Maccatrozzo poco dopo la scomparsa di Franco, un dono che la cooperativa ha fatto alla famiglia e che rappresenta Franco e Il Germoglio: un trionfo di colori, un ponte, l’acqua e il verde…

Quel quadro è diventato un puzzle, sul quale tutti i lavoratori che
hanno conosciuto Franco hanno lasciato un messaggio, in sintesi una parola che rappresentasse quel collega, per alcuni quell’amico, così determinato.

C’è un altro segno di Franco che ha preso forma da poco grazie a una delle iniziative organizzate in occasione del trentesimo anniversario de Il Germoglio: la testimonianza video della storia della cooperativa.

Viene raccontato come Franco ne sia stata l’origine: col suo desiderio irrefrenabile di fare tesoro di quel che aveva, di non concentrare lo sguardo su quanto gli mancasse, ha stimolato i suoi genitori e altri conoscenti all’impegno per costruire una cooperativa in grado di creare relazioni e formare competenze anche per persone con abilità limitate.

Il segno di Franco a Il Germoglio passa attraverso la convinzione radicata in chi crede nella cooperativa che la solidarietà e l’impegno possono aiutare ognuno ad assumere un ruolo da protagonista della propria storia lavorativa, contribuendo alla costruzione di un’adeguata organizzazione, impegnandosi poi ad attuarla e migliorarla.

Ancora adesso a ogni incontro, riunione, evento, assemblea viene invitato Roberto, colui che ha messo le gambe e le braccia alle idee e alle volontà di Franco. Quasi a voler certificare che si sta crescendo in continuità con i valori di allora, anche se il fare impresa è completamente diverso.

C’è un altro segno di Franco, meno tangibile ma forse il più importante: si è dovuto mettere in discussione il modo consueto di approccio con le disabilità, imparando a considerare l’altro per quello che è, indipendentemente da condizioni sociali e fisiche.
Se attraverso il lavoro si riesce a migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità, lo si deve a regole e obiettivi, in totale assenza di atteggiamenti di assistenzialismo, pietismo e compassione.

Franco voleva essere protagonista, sudando l’inverosimile per garantire che ogni giorno il suo compito fosse svolto in modo corretto, suggerendo miglioramenti continui per fare più in fretta e poter così fare di più. Lo stipendio non doveva essere un regalo; il lavoro deve diventare, per quanto possibile, protagonismo, crescita, cooperazione, dignità, autonomia.

Grazie a questo metodo si è arrivati ora a coinvolgere 23 persone con limitazioni psicofisiche certificate ai sensi della Legge n. 381 del 1991 su un totale di più di 90 collaboratori.

Già il numero documenta il successo del percorso fatto, ma quello che sorprende è la continuità e la qualità dei rapporti lavorativi, quasi tutti a tempo indeterminato e senza turn-over. È il risultato di un clima aziendale e di un’organizzazione che “gestisce” l’inserimento lavorativo in modo efficace.

Non c’è un manuale, non una procedura, non persone esperte dedicate. C’è un gruppo di persone che crede che il lavoro contribuisca a qualificare la vita dell’altro e per questo stimola l’autonomia, la crescita, l’impegno… e lo fa anche con le persone con disabilità.

Rispettare l’orario di lavoro, vestirsi dignitosamente, curare l’igiene personale, attenersi alle disposizioni, sono stimoli fondamentali per dare senso alla giornata di chi altrimenti sarebbe relegato al divano di casa quando non assistito in un istituto.
Il risultato sorprende anche i referenti delle istituzioni ed è confermato dal fatto che alcuni colleghi svantaggiati vanno in crisi quando gli si prospetta la necessità di prendersi giorni di riposo e ferie.

Questo modo di fare e quanto importante possa essere il lavoro per queste persone lo abbiamo ereditato dall’aver avuto Franco come collega. Riconoscerlo diventa il modo migliore per ricordarlo e ringraziarlo».

Paolo Cuogo – ex dipendente della cooperativa
L’intervista è di Roberto Vian

Incontro Paolo Cuogo dopo circa vent’anni dall’ultima volta. E il suo sorriso è sempre lo stesso.
Paolo, parliamo un po’ di Franco e de Il Germoglio.

«Sono arrivato a Il Germoglio perché avevo saputo da amici che lavoravano già all’interno che stavano cercando una persona per un doppio ruolo: giardiniere e informatico. E io andavo bene proprio per le mie competenze informatiche, ma anche per la mia disponibilità a uscire e svolgere attività con le squadre di giardinaggio.

Uscire e lavorare mi permetteva di capire quale fosse il lavoro della cooperativa e come poi sviluppare i programmi informatici per supportare queste attività.

C’era l’idea di integrare Franco nel lavoro d’ufficio, ma non si sapeva ancora bene come fare per metterlo in condizione di essere utile, di poter fare qualcosa di concreto. Di certo la strada era quella dell’uso del computer.

C’era un programma, Dragon, a quel tempo tra i pochissimi a farlo, che riusciva a tradurre in comandi le parole dette in un microfono. Sì, ma Franco non parlava bene. Non diceva le parole scandite e soprattutto sempre allo stesso modo. Allora la prima cosa che abbiamo fatto è stata individuare alcune vocalizzazioni di Franco che sapesse rifare sempre uguali. O circa.

Ricordo le a, le o, ei, vivai, al lavoro, a riposo. E per ciascuna di queste vocali e parole davamo al programma dei comandi precisi.
Ecco come siamo riusciti a permettere a Franco di inserire a computer le schede lavoro che le squadre che uscivano compilavano a mano al loro ritorno. E queste schede, inserite a computer, permettevano poi di calcolare le ore da fatturare per ciascun intervento».

Quello di Franco era davvero un lavoro utile?

«Senza dubbio. Qualcun altro lo avrebbe potuto fare più velocemente di lui, è vero, ma la cosa straordinaria era l’esempio che Franco dava a tutti i soci con quell’attività. Mostrava che ciascuno può darsi da fare, può riuscire a superare alcuni limiti e contribuire alla cooperativa secondo le proprie capacità e possibilità. Ecco perché era importante».

Che cosa ricordi in particolare di Franco?

«Sicuramente le grandi sudate che faceva nel cercare di farsi capire dal programma. Quando tornavo dal lavoro fuori sede lo trovavo zuppo, bagnato, ma felice. Ci siamo fatti tante risate insieme, soprattutto quando non sapevamo risolvere i problemi che incontravamo. Ci ridevamo su, davvero».

Una caratteristica particolare?


«Aveva una grande capacità di trovare soluzioni, di aggirare i problemi. Che vuol dire spirito di iniziativa, caparbietà. Ma soprattutto era sorprendente come nella sua condizione, che lo limitava fisicamente, avesse una buona percezione di come le cose potevano essere fatte, anche dagli altri. Non è una capacità scontata, perché quando non puoi muoverti è difficile maturare sensibilità alle distanze, ai pesi, alle forze necessarie per fare una cosa, ai modi per farla diversamente. Ma lui ci riusciva».

Che immagine ti è rimasta di Franco e de Il Germoglio?

«Franco ha avuto accanto a sé una grande famiglia e una comunità stretta che hanno favorito la nascita della cooperativa. Il grande merito di Franco è stato di far nascere “sensibilità” attorno a lui, nelle persone che l’hanno conosciuto e frequentato.
Dimenticavo. Tra le parole che diceva molto bene e che il programma riconosceva c’era anche Italia. Vai a capire perché…».

Ridiamo. E sentiamo anche Franco ridere con noi.

Patrizia Danesin – Collega di Franco

«Ho conosciuto Franco il 20 aprile 1998.
È una data che ricordo bene, perché ha rappresentato una svolta e una scelta importante nella mia vita. Volevo lavorare nel sociale e ci ero riuscita.

L’ho conosciuto tramite Paolo Cuogo, il ragazzo che ho sostituito nel lavoro d’ufficio. Mi ha presentato la cooperativa Il Germoglio. Ero al settimo cielo quando ho incontrato Franco, anche se non sapevo bene come comportarmi e cosa fare.

Conoscevo il suo progetto di programma vocale, che trovavo rivoluzionario, ma avevo un po’ di timore che non ci comprendessimo o non mi accettasse. Invece fu proprio Franco a mettermi a mio agio, dicendomi una semplice frase: “Se non comprendi quello che dico, dimmelo, che te lo ripeto”. Questa frase ha fatto colare via tutte le mie paure.

Ho iniziato il mio lavoro con Franco, con Margherita, Diego e Orietta. Eravamo le uniche persone al mattino e lo siamo rimaste per un po’. La sede a quel tempo era a Salzano, in via Villetta. Franco è stato un amico – anzi, un Amico – e un collega. Il suo sorriso era contagioso e con gli altri colleghi, oltre a lavorare, ci divertivamo molto.

È stato un periodo che potrei definire felice, fino a quando Franco è stato ricoverato per un problema respiratorio. Sono stati giorni difficili per tutti, ma poi è ritornato da noi.

Ho un ricordo che accarezzo sempre e mi fa sorridere: quella volta che ci siamo persi per Noale. Dovevo portare delle carte non ricordo più a chi, erano urgenti e allora siamo partiti con il Mercedes e siamo andati senza sapere che quel giorno c’era il mercato. Ho parcheggiato, ho lasciato Franco in auto e sono andata a fare la commissione.
Sono tornata indietro e… non trovavo più l’auto. Ho cominciato ad agitarmi e finalmente dopo un po’ l’ho trovata. Ero disperata. Gli ho chiesto mille volte scusa. Poi siamo ripartiti e, invece di tornare indietro, mi sono persa per i campi. Lui era divertito, io un po’ meno. Ma in ogni caso mi rassicurava, mi diceva di stare tranquilla che non era successo nulla e che saremmo tornati in sede. Finalmente siamo arrivati, trovando Roberto un po’ preoccupato. Un aneddoto che ci siamo raccontati per anni, cogliendone la parte divertente. Ma anche la parte in cui era lui a rassicurare me.

Franco era un gabbiano chiuso in un corpo che non gli permetteva di svolgere una vita uguale a quella delle altre persone. Ma la sua mente volava. Raggiungeva luoghi, cose, persone. Tutti quelli che amava.
L’ho sempre visto così.

Mi ha insegnato molto, soprattutto ad apprezzare la vita e a vedere che nonostante tutto vale la pena viverla. Anche se fa male.
Il periodo nella sede di via Villetta è stato il più importante nella mia storia a Il Germoglio. Quando ci siamo trasferiti le cose sono un po’ cambiate. L’ufficio si era arricchito di personale: il nostro rapporto era rimasto lo stesso ma, nonostante lavorassimo insieme, avevamo meno tempo per noi. Le cose non erano cambiate, ma erano diverse.

Per me è stato un consigliere importante in un momento difficile del mio percorso lavorativo ed è anche merito suo la scelta che poi ho fatto.
È stato difficile accettare che non ci fosse più. Ma quando il mio ricordo si sofferma su di lui, vedo un dolce viso che mi sorride e mi dice “Dai, ce la puoi fare”».

Martina Favaro – collega di Franco

«Lavorare assieme a Franco mi ha insegnato a guardare in faccia i miei limiti. A riconoscerli. A tenerne conto per poter definire altri progetti “raggiungibili”.

È stata una delle prime esperienze lavorative che ho avuto, la prima in assoluto in cui la mia giornata non fosse concentrata su cosa dovevo fare io ma su cosa dovevamo fare assieme. Un lavoro di squadra nel quale ciascuno correva a ritmi diversi, ma in mente avevamo la medesima meta.

Franco non girava attorno ai problemi. Li affrontava con ogni sua forza.

Riuscire a trovare un segnale positivo in ogni momento difficile gli riusciva naturale: era davvero convinto che tutto si può superare. Ce lo ha insegnato giorno dopo giorno con la sua grinta, con la sua voglia di stare assieme agli altri e di condividere le idee.
E così ogni volta che mi convincevo di avergli dato una mano, succedeva che era lui ad aver aiutato me».

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LA FELICITA' NON DIPENDE DALLA FORTUNA

MA DALLA CAPACITA' DI LEGGERE LA VITA
Ci sono persone che hanno la capacità di rimanere per sempre. Anche quando muoiono. Certo, tutti coloro che ci lasciano continuano a essere nei nostri pensieri, nei nostri ricordi, nelle nostre lacrime, nei sogni. Ma c’è anche chi riesce a fare di più.
Restare. Qui e ora. In un’altra dimensione, in un corpo che non si può toccare, in una voce che persiste nelle nostre menti e nelle nostre anime.
La loro presenza continua a farsi percepire forte e chiara.
Franco è una di queste persone speciali.
A ciascuno di noi ha lasciato qualcosa di prezioso e quel qualcosa continua a vivere.
A ciascuno di noi spetta il compito di custodire e testimoniare il suo insegnamento.

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